nere il suo permesso di emigrazione. I funzionari rimasero sbalorditi: « Ma, signor Ostermann - dissero -, voi siete tedesco come noi. La vostra famiglia è sempre vissuta in Germania. Qui non può succedervi nulla di male! ».

I nostri parenti ed amici furono ancora più espliciti; i loro peggiori sospetti sulle stranezze di mio padre trovavano conferma. « Sei completamente matto ad andar via in questo modo - gli dissero -. Siamo in un paese civile. Questo bel tipo di Hitler sta solo facendo un po' di chiasso. Sa che non esisterebbe senza di noi. Espellerà qualche ebreo polacco (che non è poi una cattiva cosa); tutto qui ». Io e i miei tre fratelli ascoltavamo queste parole, e le abbiamo tenute a mente.

Ma mio padre era un uomo ostinato; sapeva di aver ragione, anche se non poteva dimostrarlo. Vendemmo tutto e partimmo.

Gli ultimi giorni furono febbrili. Sospettavamo che qualcuno dei soci d'affari di mio padre lo avesse denunciato alla Gestapo. Così la famiglia si divise, mio padre con due figli e mia madre con gli altri, per passare il confine nel modo più tranquillo possibile. Per me, che ero un ragazzo, fu una notte eccitante. Mia madre, in preda al nervosismo, perdeva una cosa dopo l'altra. Il treno raggiunse la frontiera francese, i funzionari nazisti controllarono le nostre carte, e fu tutto. Il treno andò innanzi, in terra di Francia. (Da allora la Francia è rimasta per me un simbolo di libertà. Io amo la Francia. Ho continuato ad amarla anche quando costituii il Comitato israeliano per la liberazione dell'Algeria e appoggiai il Fronte di liberazione nazionale algerino nella sua lotta contro i francesi.)

Circa due settimane più tardi guardavamo avvicinarsi lentamente le spiagge della Palestina dal ponte di una nave. A noi ragazzi si apriva un mondo nuovo

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