chie volte, finché mi ritrovai in una stanza dove fui abbagliato da una luce vivissima.

Per un pelo l'intervista non andò fallita. Alla domanda se odiavo gli arabi diedi la risposta sbagliata. Dissi di no, che potevo combattere gli inglesi senza odiare gli arabi. Per un ragazzo di quattordici anni erano sentimenti un po' dubbi; ma qualcuno di dietro la luce dovette decidere che avrei potuto essere

10 stesso un bravo soldato clandestino, perché mi

accettarono. L'anno e mezzo successivo passò in pura beatitudine. La mia vita era dominata da una sicurezza che dopo non ho più conosciuto: stavamo

facendo la cosa giusta. I nostri capi, che non conoscevamo, erano dei superuomini, saggi ed eroici. Arabi e inglesi erano il nemico, i capi dell'Agenzia ebraica degli spregevoli ebrei da ghetto. Noi eravamo i « pochi eletti » che con il loro sacrificio avrebbero portato il nostro popolo alla salvezza.

Ci esercitavamo. Marciavamo. Ci indurivamo. Cantavamo canzoni guerriere le cui parole descrivevano le grandi gesta dei nostri antichi eroi, e il nostro credo: « La Giudea cadde nel sangue e nel fuoco, e nel sangue e nel fuoco risorgerà ». Imparavamo ad usare le pistole, ad estrarle rapidamente, a sparare dal fianco - naturalmente a vuoto, perché una pallottola era preziosa come l'oro. Quando mi furono affidate le tre pistole del gruppo, che nascosi sotto il letto, mi sentii al settimo cielo.

Le famiglie erano dimenticate. Il lavoro era un fastidio, di cui sbarazzarsi il più in fretta possibile. Vivere significava smontare e rimontare un mitra ad occhi chiusi (penso che sarei ancora capace di farlo).

11 sesso significava starsene in un angolo buio di strada con una ragazza dell'Irgun a fingere di fare l'amore, pronti, una mano su un pulsante nascosto, ad avvertire dell'avvicinarsi della polizia i compagni che stavano esercitandosi sul tetto.

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