riforme sociali e al progresso pianificato dell'intera regione.

Ci furono rivolte molte accuse: di voler tagliarci fuori dal popolo ebraico sparso per il mondo, di dimenticare la cultura occidentale, di seppellire il sionismo, di dare aiuto e sollievo al nemico arabo. Ma il dibattito pubblico da noi provocato portò queste idee in molti ambienti. Sentivamo che il futuro ci apparteneva, e che rappresentavamo l'autentica nuova voce della gioventù ebraica.

Nell'autunno del 1947 scrissi un opuscolo intitolato Guerra e pace nella Regione semitica, che

prendeva posizione contro la spartizione del paese e si sforzava di formulare un'alternativa pratica. Traducemmo in arabo un sunto dell'argomentazione svolta nel libro, e lo inviammo a tutti i giornali e i gruppi politici del Medio Oriente.

Ma era troppo tardi. Pochi mesi dopo scoppiava quella che noi in ebraico chiamiamo la Guerra di Liberazione.

Quando la radio annunciò che l'Assemblea generale delle Nazioni Unite aveva approvato a maggioranza la spartizione della Palestina in due Stati, uno ebraico e l'altro arabo, le masse si riversarono nelle strade ballando per la gioia. Sembrava che l'antico sogno si fosse realizzato: gli ebrei avevano finalmente trovato un focolare nazionale (a national home), libero e indipendente, dove avrebbero potuto vivere in pace.

Quella notte cruciale lavorai febbrilmente, insieme con i miei pochi amici, alla pubblicazione dell'ultimo numero di « Bama'avak ». Vi ammonivamo che la spartizione non avrebbe portato la pace, che una grande guerra era imminente, e che lo storico scontro tra le nazioni araba ed ebraica sarebbe continuato in forme diverse sino al raggiungimento dell'unità semitica.

15