In giugno un'unità egiziana tagliò fuori un kibbuz chiamato Negba, punto-chiave della nostra linea difensiva. Ricevemmo l'ordine di sgombrare il nemico dalla sua posizione fortificata sulla Collina 105. In una notte di pece, con otto jeep scoperte - ciascuna armata con due mitragliatrici - travolgemmo letteralmente le trincee nemiche. Il giorno dopo ci dissero che avevamo vinto lo scontro decisivo della guerra, e che in considerazione di ciò ci insignivano del titolo onorifico di Volpi di Sansone. (« Sansone adunque andò, e prese trecento volpi. Prese anche delle fiaccole e, rivolte le code delle volpi l'una contro l'altra, mise una fiaccola in mezzo ad ogni paio di code. Poi accese le fiaccole, e cacciò le volpi nelle biade dei Filistei... »).

Molto tempo dopo lessi che un ufficiale egiziano a nome Gamal Abd-el-Nasser era rimasto ferito in quella battaglia. Ci trovammo certamente assai vicini nella mischia. Questo curioso legame tra Nasser e le Volpi continuò per tutta la guerra; dobbiamo esserci incontrati dozzine di volte - senza le debite presentazioni - nel buio delle battaglie notturne.

Infine, l'ultimo giorno che la nostra brigata passò sul fronte meridionale rimasi ferito in un settore presso Faluga posto sotto il comando di Nasser. A quel tempo comandavo un plotone. I miei uomini erano una strana mescolanza di volontari ebrei marocchini, tripolitani e turchi, che erano venuti da noi appena scesi dalle navi. Li avevo addestrati io, valendomi di gesti e di poche semplici parole; riuscivamo a stento a capirci. Quel giorno mi ordinarono di andare in aiuto di un altro plotone, su una piccola collina di fronte alle posizioni egiziane, in pieno giorno. Sapevo che l'ordine era completamente sbagliato, ma dopo dodici mesi di battaglie a un uomo non importa più molto di nulla. Salii sulla collina, lasciai i miei uomini sul pendio opposto e andai in

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