cima incontro al comandante dell'altro plotone. Mentre stavamo lì in piedi a studiare la posizione nemica si scatenò improvvisamente un micidiale fuoco di mitragliatrici. Fui colpito all'addome e ad un braccio. Mi sono sempre chiesto come fecero i miei uomini, tutti novellini, a balzar su e a strapparmi, sotto il fuoco, a quella trappola mortale. Poiché devo loro la vita, le chiacchiere sciocche sull'inferiorità degli immigrati orientali (elemento abituale della conversazione israeliana) mi mandano facilmente in collera.

In tutto il periodo della guerra il mio turbamento circa la fisionomia del nuovo Stato, che andava prendendo forma in qualche luogo alle spalle dei giovani che costituivano le brigate combattenti, non fece che aumentare. Non mi piacevano l'identificazione di Stato e religione, la divisione del bottino tra i funzionari dei vecchi apparati di partito, la dipendenza dall'aiuto straniero, e neppure l'assetto sociale. Ma soprattutto disapprovavo la sterilità della via scelta dal nuovo Stato per affrontare il problema principale: come fare la pace con gli arabi. La guerra trasformava i combattenti - quelli che riuscivano a sopravvivere - in sostenitori appassionati della pace.

Esprimevo queste opinioni durante le conversazioni senza fine al campo, intorno ai fuochi e in mezzo alle siepi di cactus, e mi accorsi che molte di esse erano condivise dai miei compagni. Decidemmo di fare qualcosa, in un modo o nell'altro, a guerra finita. L'occasione arrivò prestissimo. Dopo essere uscito dall'ospedale, mentre aspettavo che gli amici completassero il loro servizio militare, diedi alle stampe il mio diario di guerra, con il titolo Nei campi dei Filistei. Inaspettatamente, divenne un best-seller. I proventi del libro, più un po' di denaro che eravamo riusciti a racimolare, ci permisero di

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