alle promesse delle forze armate si crede; esse sono anzi le uniche cui si crede.

Me ne stavo a letto a Tel Aviv invece che in una trincea in qualche posto in mezzo alle dune sabbiose del Negev perché come deputato sono esonerato dal servizio nell'esercito. Ma credo che quel 5 giugno 1967 fossero assai pochi gli uomini della mia età ancora a Tel Aviv. In verità l'assemblea era riconvocata proprio per quel giorno, e dovevo andare a Gerusalemme per la sessione parlamentare. Dopo aver ascoltato alcuni notiziari radiofonici - dal tono drammatico ma privi di fatti precisi - sull'avanzata nel Sinai, mi diressi in auto a Gerusalemme, distante una cinquantina di miglia.

Ero il solo civile sulla strada. La mia Mustang bianca faceva un curioso contrasto con l'immensa colonna di carri armati e di mezzi cingolati in marcia verso Gerusalemme. I giordani avevano cominciato a bombardare il territorio israeliano, e la quantità delle truppe in movimento verso est confermava la mia supposizione che avremmo effettuato un attacco sul fronte giordano. Un osservatore straniero avrebbe trovato caotico lo spettacolo offerto dalla strada: carri armati e cingolati, automobili

del comando, jeep e cannoni, tutti che cercavano di sorpassarsi, e la polizia militare che si sforzava di mettere un po' d'ordine. Ma tutto era perfettamente conforme allo stile israeliano. Il nostro esercito è composto da gente che sa esattamente qual è il suo lavoro, e che per farlo non ha alcun bisogno di un ordine e di una disciplina esteriori.

Ciò che mi colpì fu lo stato d'animo, universale, di eccitazione, quasi di allegria. L'atmosfera era quella di un enorme sospiro di sollievo, dopo ventun giorni di tensione e di incertezza crescenti. Quali che fossero stati i dubbi covati in quelle tre settimane di tensione, essi sembravano essere evaporati non

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