doveva sembrare altrettanto strano che dichiarare di non appartenere al genere umano. Ma poiché ero loro ospite, insistevano per accompagnarmi regolarmente, in occasione di tutti i pasti, alla sala da pranzo della comunità, proteggendomi dagli sguardi ostili degli altri membri del kibbuz, non meno sconcertati di trovare in mezzo a loro un così strano animale.

Durante quei pasti frugali, sempre modesti e sempre mal cucinati, io guardavo Grysha e Nadia e m'interrogavo sul senso della loro vita. Che cosa aveva spinto Nadia, che sembrava una signora dell'alta società di Pietroburgo, a lasciare ragazza la sua casa per andarsene da sola in un paese lontano e desolato, ad affrontare una vita di incredibili disagi? Che cosa aveva spinto Grysha, giovane studente in Ucraina, ad abbandonare ogni cosa per diventare un lavoratore comune nella valle di Jezreel infestata dalla malaria? Per me essi rappresentano l'espressione migliore del sionismo. Alla fine della prima guerra mondiale Grysha e Nadia erano stati tra i fondatori del kibbuz. Per i primi venti anni si trattò di una vita poverissima, di lavoro duro da spezzarsi la schiena, di sacrifici senza fine in un remoto avamposto circondato da villaggi arabi spesso ostili, senza neppure il più piccolo agio, come ad esempio possedere abiti di proprietà personale, o la possibilità di una qualsiasi intimità.

Al tempo in cui io li conobbi il kibbuz se la cavava già abbastanza bene: l'ombra di verdi alberi lo proteggeva, e il suo tenore di vita si avvicinava a quello della città. Ma, a differenza della maggior parte degli altri kibbuzim, qui ci si rifiutava di fare la più piccola concessione agli agi della vita. Il cibo rimaneva frugale, credo più per una questione di principio che per necessità. Grysha lavorava ancora dieci o dodici ore il giorno, sobbarcandosi a tutti

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