sia in Germania che altrove lasciarono un'impronta indelebile sulla storia ebraica.

Ma c'è un secondo motivo. I crociati finirono male: dopo avere combattuto incessantemente per otto successive generazioni, alla fine furono letteralmente gettati in mare. Gli israeliani temono che il paragone possa essere di cattivo augurio per il loro tentativo storico. Esattamente per le stesse ragioni gli arabi amano paragonare i sionisti ai crociati, anche se un'identificazione frettolosa è naturalmente del tutto infantile: la storia non si ripete mai in modo così meccanico. Ma l'analogia tra Israele e il regno di Gerusalemme conserva il suo interesse, sia per le somiglianze che per le dissomiglianze che mette in luce.

Fui stimolato a riflettere sulle crociate qualche anno dopo la guerra di liberazione d'Israele. Mi ero ritrovato tra le mani abbastanza casualmente l'eccellente Storia delle Crociate di Steven Runciman, e, arrivato al capitolo sulle fortificazioni costruite dai crociati davanti alla striscia di Gaza a difesa del loro regno contro gli egiziani, fui improvvisamente colpito dall'idea che io, come soldato dell'esercito d'Israele, avevo occupato le stesse identiche posizioni. A mano a mano che continuavo la lettura con interesse ravvivato, mi si affollarono alla mente centinaia di analogie, grandi e piccole. Può divenire un'ossessione: si comincia col tracciare paralleli tra grandi eventi e istituzioni e si finisce con lo stabilire equazioni tra singoli individui, re duchi e cavalieri, chiedendosi chi è il principe sionista di Gallipoli e chi il duca d'Oltregiordano.

Le analogie sono in verità impressionanti. Il movimento dei crociati fu, come quello sionista, una rivoluzione così profonda e di così vaste conseguenze da sfidare i tentativi di spiegazione razionale. Delle

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