il solo fatto che un'illusione di questo tipo possa esistere mostra la differenza fondamentale tra le due situazioni. Nessun crociato avrebbe mai potuto pensare che la guerra tra cristiani e musulmani fosse il prodotto di qualcosa di diverso dalla volontà divina. Quindi nessuno, né arabo né israeliano, deve spingere quest'analogia troppo oltre o derivarne atteggiamenti fatalistici di paura o di speranza (pur non ignorando le implicazioni infauste per il futuro di Israele della vicenda crociata). L'analogia dovrebbe piuttosto essere vista come una lezione da cui trarre utili conclusioni per la guida della nostra azione futura. Come mi disse una volta uno storico eminente discutendo questo tema: « Gli israeliani dovrebbero considerare la Storia delle Crociate come un manuale che indica ciò che non debbono fare ».

Per aver poggiato esclusivamente sulla superiorità della sua organizzazione militare e del suo valore guerriero, il regno di Gerusalemme sembra essersi condannato all'oblio. Ma gli stupefacenti fatti d'arme che portarono i crociati fin nel cuore dell'Egitto tendono a oscurare i veri problemi che sulla lunga distanza ne condizionarono il destino. Gli identici problemi si ritrovano oggi nel contesto israeliano: senza la disponibilità a integrarsi nel Medio Oriente, senza una politica mirante a ottenere il riconoscimento e l'accettazione degli altri popoli della regione, lo Stato d'Israele non può aspirare che a una sicurezza provvisoria.

I crociati conquistarono Gerusalemme nel luglio 1099, celebrando l'avvenimento con un massacro spaventoso, uccidendo indifferentemente musulmani ed ebrei fino a dover aprirsi la strada in mezzo a una massa di corpi e di sangue che arrivava loro al ginocchio, come ci racconta il contemporaneo Raimondo d'Agiles. Gli ultimi crociati furono cacciati da

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