doveva emancipare gli ebrei anche dalla loro spregevole condizione di bottegai, di usurai e di sensali, esistenza di parassiti dipinta nei libri di scuola sionisti con colori che ricordano alquanto la letteratura antisemitica. No: gli ebrei dovevano diventare lavoratori. I professori dovevano farsi agricoltori, i sarti meccanici, i commercianti falegnami e i bottegai soldati coraggiosi. Si trattava di « rovesciare la piramide sociale » allo scopo di fornire alla società ebraica in Eretz-Israel una larga base di operai e agricoltori. Era questo uno degli elementi fondamentali del socialismo sionista, insieme alla « religione della fatica » e alla convinzione che il lavoro manuale ha qualcosa di purificante.

L'idea era splendida. Senza di essa probabilmente oggi non avremmo Israele, e certamente non esisterebbero i kibbuzim. Da lì è venuta la rivoluzione che ha conferito rispettabilità al lavoro e ha preteso l'acquisizione di una mentalità tecnologica: una rivoluzione senza la quale nessun paese sottosviluppato del Medio Oriente (o di qualsiasi altro posto) ha alcuna possibilità di unirsi al cammino della società industriale moderna.

Ma proprio questa idea creò la necessità di posti di lavoro, e insieme quella di terra. Lo slogan « manodopera ebraica » significava forzatamente « niente manodopera araba ». Il « riscatto della terra » significava spesso, per necessità di cose, « riscattarla » dai fellahin arabi che incidentalmente si trovavano a vivervi. Un piantatore ebreo che nei suoi aranceti impiegasse degli arabi era un traditore della causa, uno spregevole reazionario che non solo privava del lavoro un operaio ebreo, ma -- cosa ancora più importante - privava il paese di un operaio ebreo. Intorno ai suoi aranceti bisognava organizzare picchetti, e gli arabi dovevano esserne allontanati con la forza. Se era necessario versare del sangue, ebbene,

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