costituiscono due parti di una stessa città quanto il Bronx e Manhattan) appartennero a due mondi diversi, con un'invisibile linea di confine (di rado attraversata) che le divideva anche nei momenti di relativa pace, finché Gialla non fu conquistata dagli israeliani nel marzo 1948.

Ci si può chiedere: era tutto ciò inevitabile? Non avrebbe potuto il sionismo patrocinare sin dagli inizi un'economia palestinese integrata che desse lavoro sia agli ebrei che agli arabi? Non avrebbe potuto la terra essere colonizzata sia da agricoltori ebrei che da agricoltori arabi? Non avrebbero potuto i kibbuzim

- per incredibile che possa sembrare - accogliere dei membri arabi? In una parola, non avrebbe potuto il socialismo sionista divenire, al suo sorgere, internazionalista, palestinese, semitico? Voci isolate hanno talvolta sollevato questi interrogativi. Il dottor Arthur Rupin, uno dei più illuminati dirigenti sionisti e organizzatore di colonie ebraiche, in una lettera del 1911 lanciò un ammonimento contro gli eccessi della battaglia per la « manodopera ebraica », ed in un'altra lettera del 1914 propose che una parte della terra di nuova acquisizione venisse riservata all'insediamento di fittavoli arabi. Ma idee di questo tipo non trovarono alcuna eco. Il sentimento dominante fu ben espresso da uno dei più vecchi statisti del sionismo: il temibile Menahem Ussishkin, il vero vincitore di Herzl nella controversia sull'Uganda. In un opuscolo intitolato II nostro programma, risalente al 1905, in cui si affermava che « tutto Eretz-Israel, o almeno la maggior parte di esso, diverrà proprietà del popolo ebraico », egli si occupò del fenomeno dell'impiego di manodopera araba da parte dell'economia ebraica nei termini seguenti: si trattava di una « lebbra penosa ».

La « manodopera ebraica », la « terra ebraica » e

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