proprio partito. Così egli può inseguire il successo soltanto all'interno dell'attuale partito maggioritario, che dovrà conquistarsi per divenire primo ministro, anche pagando il prezzo dell'accettazione di un apparato di partito che detesta e che può limitare la sua libertà d'azione. (In Israele, dove non c'è alcun sistema bipartitico, sarebbe più normale per un leader carismatico come Dayan crearsi lo strumento per la realizzazione dei propri fini in un partito proprio. Ben Gurion l'ha fatto più volte.)

Ma, nonostante tutto, Dayan è guidato da un tema centrale. Con tutto il suo zigzagare, egli torna sempre su un punto fondamentale. L'opinione pubblica lo avverte, ed è questo che spiega l'ondata che alla vigilia dell'ultima guerra lo impose al ministero della Difesa. Dayan è stato, è e sarà sempre un combattente antiarabo. È l'equivalente israeliano di ciò che gli americani usavano chiamare un Indian-fighter, un tipo d'uomo comune tra la seconda generazione di coloni in un paese in cui i nuovi arrivati sono costretti a combattere la popolazione indigena.

Se si passano in rassegna le migliaia di discorsi, articoli e dichiarazioni di Moshe Dayan, si trova un'unica occasione in cui egli abbia espresso il suo vero pensiero. Si tratta dell'elogio funebre pronunciato ai funerali di Roy Rotenberg. Roy, membro del kibbuz Nahal-Oz, davanti a Gaza, fu ucciso pochi mesi prima della guerra del Sinai da alcuni arabi che avevano attraversato il confine per raccogliere un po' di grano (piombato loro addosso a cavallo per spaventarli e farli fuggire, era stato colpito a morte). Dayan sembrò profondamente commosso dall'episodio - cosa in lui sorprendente - e pronunciò un discorso breve, leggendo - altra cosa insolita - un testo predisposto. È questo l'autentico credo di Dayan, che proprio in quel giorno compiva il quarantunesimo anno:

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