una nazione. Un processo di questo tipo si era già verificato negli Stati Uniti, in Australia, in Brasile e in molti altri paesi. Si è verificato di nuovo in Palestina.

Noi, i figli e le figlie del sionismo, costituiamo appunto una nazione nuova, e non già un'ennesima componente dell'ebraismo mondiale localizzata in Palestina. È questo il fatto centrale della nostra vita, oscurato da idee e slogan antiquati; è questa la verità che occorre afferrare se si vuol capire qualcosa della nostra esistenza, dei nostri problemi, del nostro futuro.

Che cos'è una nazione? Molte risposte sono state date a questo quesito, ciascuna influenzata dalla particolare ideologia propria di chi la formulava. Alcuni fanno battere l'accento sulla comunanza del territorio, altri sulla comunanza culturale o economica. Io non credo alle formule astratte, cui la vita reale non corrisponde mai esattamente. Per me la risposta è semplice e pragmatica: una nazione è un gruppo di individui i quali sono convinti di costituire una nazione, vogliono vivere come nazione, sono soggetti a un comune destino politico e s'identificano con un unico Stato, cui pagano le tasse, che servono in armi, per il cui futuro lavorano, di cui condividono la sorte e per cui - se necessario - muoiono.

In questo senso noi israeliani siamo una nazione, incontestabilmente e irrevocabilmente, per il bene e per il male. La nostra nazione ci comprende tutti, da Dan a Eilat, ma non include un ebreo di Brooklyn, Parigi o Bucarest, qualsiasi sia la simpatia e l'affinità ch'egli possa provare per il nostro paese.

La differenza che divide la generazione dei padri ebrei provenienti da ogni parte del mondo dai loro figli israeliani è assai più grande di un consueto scarto generazionale: in mezzo è passata una trasformazione decisiva. Una diversità di modo di vivere, di alimen¬

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