nazionale, prospettiva detestata dalla maggioranza degli israeliani. Peggio ancora, l'incremento naturale degli arabi palestinesi essendo più che doppio di quello degli israeliani (45 contro il 22 per mille), e non essendo in vista alcuna ondata rilevante di immigrazione ebraica, è praticamente certo che gli arabi arriverebbero a costituire la maggioranza della popolazione dell'eventuale « Grande Israele » in meno di una generazione, raggiungendo con ciò lo scopo postosi anteriormente alla creazione di Israele: uno Stato palestinese governato da una maggioranza araba, in grado di porre un termine all'immigrazione. Tra i partigiani dell'annessione può esserci qualcuno, appartenente alla frangia più pazzamente estremista, convinto che gli arabi debbono e possono, col tempo, essere espulsi dal paese, rendendo così disponibile l'intera regione palestinese per uno Stato ebraico omogeneo. Altri sostengono che dopo l'annessione non si dovrebbero concedere agli arabi i diritti civili, trasformando così Israele in un nuovo Sud Africa o una nuova Rhodesia, con i cittadini ebrei che esercitano il potere politico su una popolazione indigena oggi minoritaria, ma suscettibile di divenire domani la maggioranza. Parecchi esponenti dei vecchi partiti hanno chiesto una politica di « incoraggiamento ed aiuto » agli arabi ad emigrare dalla Palestina.

L'annessione trasformerebbe Israele in un impero ebraico, con un regime di tipo coloniale per il controllo della popolazione araba. Nessuno può credere che in un tale impero, tormentato da un problema continuamente aggravantesi di sicurezza interna e di resistenza armata, la democrazia potrebbe mantenersi, neppure per i cittadini ebrei: la logica delle leggi di emergenza, una volta applicate su larga scala, si sviluppa per virtù propria. In un modo o nell'altro, l'annessione sarebbe la fine di Israele come oggi lo conosciamo, la fine di ogni speranza di integrazione

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