Nel corso di una recente visita all'enorme campo di profughi presso Gaza, mi capitò di chiedere ad un ragazzo arabo: « Di dove sei? ». Egli rispose: « Di al-Koubab ».

La risposta mi colpì per due ragioni: innanzitutto perché il ragazzo aveva soltanto sette anni, ed era quindi nato a Gaza dodici anni dopo che la sua famiglia aveva lasciato il territorio israeliano (in effetti non aveva mai visto al-Koubab, un villaggio che cessò di esistere molto tempo fa, quando le sue povere case vennero abbattute dai bulldozer che preparavano il terreno per una nuova comunità ebraica); in secondo luogo perché di al-Koubab avevo ricordi personali. Come soldato delle Volpi di Sansone avevo partecipato alla presa del villaggio. Lo avevamo circondato di notte, dopo aver vuotato qualche caricatore. Entrando nelle case abbandonate, trovammo i forni ancora caldi, e il cibo sulle tavole. Qualche centinaio di persone era andato ad ingrossare le file dei profughi.

Chi scrive partecipò a numerose operazioni di questo tipo, e non può fare a meno di ricordarle quando si parla del problema dei profughi. Credo dunque di essere altrettanto qualificato di chiunque altro a fornire un resoconto obiettivo di ciò che effettivamente avvenne.

Il primo elemento da considerare è che la guerra del 1948 non si combattè tra eserciti regolari di Stati normalmente costituiti. Non vi funzionavano le regole proprie delle guerre del mondo civile. Si trattava piuttosto di un urto violento tra due movimenti animati da un fervore quasi religioso: il sionismo colonizzatore da un lato, un nazionalismo xenofobo dall'altro. Ognuno mirava alla distruzione dell'avversario. Questo tipo di lotta degenera facilmente in una guerra di sterminio.

La storia dei combattimenti può essere approssi-

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