catastrofe nazionale, un secondo Olocausto, e forse

10 sterminio fisico totale. Sul lato israeliano, la fuga degli arabi veniva incontro allo spirito colonizzatore connaturato al sionismo. Essa significava l'abbandono di migliaia di case e di centinaia di migliaia di acri, che si rendevano così disponibili per le centinaia di migliaia di immigranti ebrei che si riversarono nel paese dopo il 1948. Stante la massiccia immigrazione, in Israele anche il solo pensare alla possibilità di un rimpatrio dei profughi suonava sacrilegio.

A giustificazione della posizione israeliana sono state addotte molte ragioni •-- di ordine giuridico, economico e politico -, oltre alle decisive considerazioni relative alla sicurezza interna. Ognuna di esse ha qualche validità, ma ognuna è pure suscettibile di confutazione. L'israeliano medio è sinceramente convinto che la concessione ai profughi del diritto di tornare nel paese metterebbe in movimento una catastrofica marea di arabi ossessionati dall'odio, che sommergerebbe il nuovo Stato con la forza del numero. Personalmente, io credo che dietro tutte le argomentazioni ostili al rimpatrio - quelle plausibili come quelle insensate - si celi l'ideale fonda-mentale del sionismo: uno Stato ebraico omogeneo, uno Stato « altrettanto ebraico quanto l'Inghilterra è inglese », secondo la formula spesso ripetuta dai dirigenti sionisti.

Insieme con i miei amici, io ho sostenuto sin dai primissimi giorni dopo la guerra del 1948 il principio che occorreva dare ai profughi la scelta tra

11 rimpatrio e l'indennizzo. Ma il governo israeliano ha offerto soltanto l'idennizzo senza il rimpatrio (cosa inaccettabile per gli arabi), giacché il ritorno dei profughi - qualsiasi forma assuma - è l'idea di gran lunga più impopolare che si possa propagandare in Israele. E tuttavia noi crediamo che la soluzione del problema dei profughi sia la chiave della pace,

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