Dopo un periodo di grandi speranze, il paese conobbe l'attesa. Attesa di che cosa? Nessuno avrebbe saputo dirlo. Il tempo sembrava essersi fermato. Dayan esprimeva pubblicamente la sua persuasione che l'occupazione avrebbe potuto prolungarsi indefinitamente. Alcuni cominciarono a credere che una formula internamente così autocontraddittoria come quella di « occupazione liberale » fosse suscettibile di guadagnarci l'affetto degli arabi.

La ridicola missione di Gunnar Jarring si trascinava, con l'unico risultato di rafforzare lo status quo. Il terrorismo sembrava sul punto di venire sconfitto, gli eserciti arabi apparivano una realtà trascurabile, e le grandi potenze si neutralizzavano reciprocamente. Sotto la presidenza paterna e rassicurante di Levi Eshkol la grande coalizione diveniva un simbolo di unità, e congelava il fronte interno in un confortevole immobilismo.

A questo punto la destra tradizionalista ortodossa e sciovinista scatenò una campagna a favore dell'annessione ufficiale dei territori occupati. Si unirono ad essa alcuni piccoli gruppi marginali, fascisti e ultra-religiosi, e ne venne fuori il movimento per il Grande Israele (la totalità di Eretz-Israel). Ma, con grande sorpresa dei suoi promotori, il movimento conquistò appena un quarto o un quinto della popolazione. Il che vuol dire che vi aderì soltanto quella parte del paese che era sempre stata favorevole all'espansione e all'annessione. La grande massa non fu raggiunta.

Da parte nostra noi, benché in numero due volte più piccolo, propagandavamo attivamente le idee di pace. Nel marzo 1968 il mio partito, Forza nuova (o partito di « Ha'olam Hazeh ») elaborò un piano di pace particolareggiato (vedi Appendice), e numerosi altri gruppi assunsero posizioni analoghe. Ma tra le due tendenze contrapposte non si è mai sviluppato un dibattito.

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