La popolazione provava ammirazione per l'organizzazione guerrigliera palestinese, ma non la appoggiava in modo attivo. I tribunali militari non irrogavano sentenze capitali. Ci si accontentava di mettere in prigione i terroristi e i guerriglieri.

In ambedue i campi si viveva nell'attesa.

In quell'epoca non emerse nessun capo palestinese forte e indipendente. E nessuno si levò per affermare: « Quanto a noi palestinesi, siamo pronti a negoziare con gli israeliani, poiché è in giuoco la nostra vita ».

Quando esprimevo stupore per questo silenzio con i miei amici palestinesi - che avevo vivamente incoraggiato a prendere una tale iniziativa - essi me ne davano numerose giustificazioni. Avevano paura. Paura che un passo del genere ne facesse dei fantocci nelle mani degli israeliani; paura di essere accusati di tradimento da parte degli altri arabi; paura di venire espulsi dagli israeliani, come accadde a parecchi leader nazionalisti; paura di rimanere vittime di un accordo tra Israele e Hussein. Essi erano infine persuasi che Israele non era disposto a far loro alcuna concessione.

Queste giustificazioni erano tutte ragionevoli; e certamente occorre un coraggio non comune per assumersi una responsabilità del genere con un'occupazione in corso. E tuttavia in una situazione di tale gravità una nazione dovrebbe saper creare questo coraggio. In realtà le ragioni più profonde della passività in questione risiedono nella storia recente del popolo palestinese. Troppo a lungo sottomesso al governo di altri, esso ha lasciato che egiziani e giordani decidessero il suo destino. La Palestina è stata soltanto una palla passata da una mano all'altra nel giuoco d'intrighi cui si dedicavano i governi arabi.

La popolazione dei territori occupati è ricca di personalità di grande intelligenza. Tra i dirigenti locali,.

289