E tuttavia sono consapevole del fatto che, appartenendo ad una delle parti, non sarò obiettivo, pur tentando di rendere giustizia ad entrambe. Io sono un israeliano. Come la maggior parte di noi, sono immensamente fiero dei risultati raggiunti dal mio popolo in molti campi; come alcuni di noi, sono pure acutamente conscio dei nostri difetti e fallimenti.
Sono un israeliano che crede appassionatamente alla pace, ma che ha vissuto la maggior parte della sua vita in guerra, e che scrive all'indomani del-l'ultimo e più drammatico scontro tra le nazioni semitiche: la cosiddetta guerra dei sei giorni del 1967, combattuta tra Israele da una parte e i paesi arabi (Egitto, Giordania e Siria) dall'altra.
Le idee di un uomo sono il frutto delle sue esperienze, le quali hanno perciò una grande importanza. La mia storia personale può contribuire a comprendere le mie idee; tenterò quindi di esporla, e non già perché sia eccezionale, ma piuttosto proprio perché è tipica.
Il mio nome, Uri, è biblico, e significa luce. Avner, o Abner, era l'aiutante di campo del re David, un personaggio che mi è sempre piaciuto. Questo nome non lo porto dalla nascita: me lo sono attribuito. Come la maggior parte delle persone della mia età in quella che allora era la Palestina, mutai nome non appena raggiunsi i diciotto anni. Con questo solo atto noi dichiaravamo la nostra indipendenza dal passato, rompevamo irrevocabilmente con esso. La Diaspora ebraica, il mondo dei nostri genitori, la loro cultura, il loro retroterra storico: non volevamo
avere più nulla a che fare con tutto ciò. Eravamo una razza nuova, un popolo nuovo, la cui nascita datava dal giorno in cui avevamo posato il piede sul suolo della Palestina. Come proclamavano i nostri