giassero gli arabi. Solo molto più tardi mi resi conto che queste « agitazioni », come le chiamavamo tra noi in ebraico, erano in realtà una ribellione, un ultimo, disperato e totalmente inefficace tentativo della nazione araba palestinese di liberarsi dei padroni inglesi e degli immigrati ebrei, i quali ultimi le apparivano come una banda di stranieri che cercava di mettere le mani sul suo paese. Ma allora vedevo soltanto che la nostra gente veniva uccisa e che gli ipocriti britannici non facevano nulla per fermarlo; e mi sembrava che i nostri capi ufficiali, i quali predicavano Yhavlaga, o autocontrollo, si comportassero da codardi.

A questa situazione un ragazzo poteva reagire in un solo modo. Dovevamo rendere la pariglia agli arabi cominciando anche noi ad uccidere, sbarazzarci degli inglesi e destituire i nostri capi ufficiali, quelli dell'Agenzia ebraica. Quando gli inglesi impiccarono Shlomo Ben-Yossef, un giovane membro del-l'Irgun che aveva gettato una bomba su un autobus arabo in risposta ad un'azione analoga degli arabi, seppi che cosa dovevo fare. Il posto di tutti i giovani ebrei con un minimo d'orgoglio e di coraggio era nell'Irgun.

Un giorno sul finire dell'estate 1938, proprio prima del mio quindicesimo compleanno, un messaggio mi annunciò che dovevo farmi trovare alle nove di quella sera presso una certa scuola in un angolo remoto della vecchia Tel Aviv. La parola d'ordine era « Sansone e Dalila ».

Mi avvicinai all'edificio con il cuore che batteva forte. Intorno un buio minaccioso. Non si scorgeva alcuna luce, e il luogo sembrava completamente deserto. Ma appena entrai delle figure scure mi circondarono. Balbettai le parole magiche, ed esse mi fecero segno di andare avanti. La cosa si ripetè parec-

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