alle posizioni fortificate sulle colline siriane sembrava imminente. Ma sapevamo che l'esercito siriano era una forza trascurabile, e un attacco di questo genere per Israele non sarebbe stato una guerra. La guerra poteva venire soltanto se l'Egitto la voleva; e l'Egitto era occupato dalla sua piccola guerra yemenita.

In quel giorno di sole nulla avrebbe potuto essere più lontano dell'idea della guerra: ce ne stavamo distesi sulla spiaggia di Tel Aviv ad attendere l'inizio dei festeggiamenti, e intanto ascoltavamo i transistor trasmettere vecchie canzoni militari, tra cui una sulle Volpi di Sansone che avevo scritta io. Ma in quello stesso istante a Gerusalemme il generale Yitzhak Rabin, capo di Stato Maggiore, si avvicinava in tribuna al primo ministro Levi Eshkol e gli mormorava qualcosa all'orecchio. Era appena giunto un messaggio urgentissimo. Eshkol, che sino a quel momento era stato allegro e sereno come tutti, si fece improvvisamente scuro. Il giorno dopo i giornali ci dissero di che si trattava. Insieme ai grandi titoli sulla parata si leggeva, più in basso, un'altra notizia importante: Gamal Abd-el-Nasser,

il presidente egiziano, aveva ordinato alle sue truppe di entrare nella penisola del Sinai, di fronte alla nostra frontiera meridionale.

Quali fossero i veri scopi di Nasser rimarrà sempre un mistero. La spiegazione più plausibile è ch'egli si fosse convinto che Israele stava per attaccare la Siria, nel quadro di un tortuoso disegno americano teso a rovesciare il regime di Damasco, di sinistra e filosovietico. Egli non poteva starsene con le mani in mano davanti a un fatto del genere, perché avrebbe distrutto per sempre la credibilità della sua pretesa di essere la guida e il difensore del mondo arabo. Le sue quotazioni erano in ribasso, e il presidente egiziano dovette pensare che fare un gesto drammatico, e d'altronde non veramente com-

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