fornire a Ben Gurion un modo dignitoso di rientrare dall'esilio di Sde Boker, dove aveva atteso con crescente impazienza che il suo popolo lo richiamasse.
Le convulsioni successive dell'affare hanno importanza soltanto per la politica interna israeliana. Parecchie commissioni segrete d'inchiesta si sono occupate della faccenda, con risultati contrastanti, finché una « Commissione dei sette », costituita da membri del gabinetto, scagionò definitivamente Lavon da ogni responsabilità. Ciò sconvolse Ben Gurion al punto da indurlo a dimettersi, il che rese necessarie nuove elezioni. Tornato al governo, si dimise di nuovo nel 1963, sotto l'impressione che i suoi colleghi del gabinetto stessero cospirando contro di lui. Quando la sua richiesta di costituire un'altra commissione di inchiesta (al fine di invalidare le risultanze della «Commissione dei sette ») fu respinta dal governo Eshkol, Ben Gurion provocò una scissione nel partito Mapai, che egli aveva contribuito a fondare, e mise su un proprio partito. Ma questo ebbe scarso successo, ed è recentemente rientrato, senza Ben Gurion, nel Ma-pai. Il tormento di Ben Gurion per questo affare ha ormai assunto caratteristiche ossessive, imbarazzando ed irritando perfino suoi vecchi pupilli come Moshe Dayan.
Io considero altamente significativo che il più grosso affare che abbia mai turbato il paese sia direttamente connesso con i due problemi principali della storia del sionismo: i rapporti con il mondo arabo e quelli con le potenze occidentali. (Si deve anche aggiungere che l'affare Lavon ha prodotto, per la luce che ha gettato su alcune discutibili attività, effetti salutari in diversi settori. Dopo di allora l'esercito israeliano si è mescolato assai di meno alla politica, e i servizi segreti sono stati posti sotto un controllo più rigoroso.)