Non ci scaglieremo oggi contro gli assassini. Chi siamo noi per obiettare al loro odio?
Sono otto anni che se ne stanno nei loro accampamenti di profughi a Gaza, mentre noi qui, davanti ai loro occhi, impiantiamo le nostre fattorie nella terra e nei villaggi in cui essi, i loro padri e i loro avi hanno vissuto.
[...] Noi siamo una generazione di coloni, e senza l'elmetto d'acciaio e il cannone non possiamo né piantare un albero né costruire una casa.
Quando vediamo l'odio germogliare e riempire le vite di centinaia di migliaia di arabi, tutt'intorno a noi, non volgiamo la testa. Non distogliamo lo sguardo, affinché la nostra mano non abbia a tremare.
Questo è il destino della nostra generazione, la sorte toccata alla nostra vita: essere sempre pronti ed armati, forti e duri. Altrimenti la spada ci scivolerà dal pugno, e la nostra vita sarà spazzata via.
È una dura filosofia, la filosofia di un crociato che non intravede alcuna possibilità di pace, ed è anzi convinto che il solo pensiero della pace sia demoralizzante. Alla vigilia della guerra dei sei giorni Kol Israel, la radio israeliana, ritrasmise questo discorso. Era Panniversario della morte di Roy, e il compleanno di Dayan.
Quella di Dayan è la filosofia di un uomo nato nella guerra, che in guerra ha vissuto tutta la sua vita e per il quale la guerra è sempre stata il centro di tutte le preoccupazioni. L'intera storia personale di Moshe Dayan è intrecciata con la lotta arabo-ebraica.
Nacque nel 1915, durante la prima guerra mondiale. I suoi genitori, ambedue immigrati ucraini, s'incontrarono a Degania A, il primo kibbuz palestinese, e si sposarono contro la volontà del kibbuz. (A quel tempo si credeva ancora che matrimoni e