ranza araba - allora inferiore al dodici per cento - finisse per diventare, in virtù dell'incremento naturale, maggioranza (processo che richiederebbe comunque parecchie generazioni, anche nell'improbabile ipotesi che il suo attuale elevato tasso di natalità si mantenesse indefinitamente). Ma non è solo per la paura di una possibile maggioranza araba che i sionisti avversano ogni idea di rimpatrio dei profughi, sib-bene anche per la convinzione - profondamente radicata seppure assai spesso inconsapevole - che gli ebrei nel loro Stato debbono essere soli, che Israele deve rimanere compattamente ebraico, e che la minoranza araba, quand'anche inevitabile, deve perlomeno essere mantenuta nei limiti più ristretti possibili.
Prima del giugno 1967 la minoranza araba, che costituiva quasi il dodici per cento della popolazione, deteneva solo il due per cento dei posti nell'amministrazione governativa, e tra i funzionari del livello più alto, tra i giudici e i membri del gabinetto non figurava un solo arabo. Dei 120 deputati della Kenesset solo sette sono arabi, e nessuno di loro occupa una posizione importante negli uffici parlamentari. (La mia prima mossa postelettorale, nel giorno stesso dell'apertura della Kenesset del 1967, consistè nella proposta che alla presidenza dell'assemblea - o almeno a uno degli otto posti di vicepresidente - fosse eletto un arabo. L'idea fu respinta con indignazione.)
In conclusione, è proprio indagando il più vasto problema dei rapporti arabo-israeliani che acquista evidenza lo scarto esistente tra la dottrina sionista e una normale sana forma di nazionalismo giudaico.
Nulla atterrisce gli arabi tanto quanto l'idea della Riunificazione degli esuli. Essa evoca dinanzi ai loro occhi lo spettro di un'ondata di immigrazione