che aggiunga alla popolazione di Israele altri dieci milioni di ebrei, facendola così traboccare al di là delle attuali ristrette frontiere. Un'ondata capace di travolgere gli Stati arabi, di espellere i loro abitanti e di impadronirsi della terra per crearvi innumerevoli nuovi kibbuzim. C'è qualcosa di buffo nella situazione odierna. I leader sionisti, compreso il primo ministro Eshkol, fanno discorsi visionari intorno ai milioni di ebrei che starebbero per arrivare sulle spiagge d'Israele, realizzando così la profezia del sionismo. Un uditorio israeliano, che sa come stanno le cose, li accoglie per quel che sono: cioè come pie illusioni di un regime in ritardo sui tempi che tenta disperatamente di tenere in vita le sue invecchiate parole d'ordine. Ma per milioni di arabi questi discorsi suonano come precise minacce portate alla loro stessa esistenza, minacce rese ancora più terribili dall'evidente superiorità militare d'Israele.
Così quello che di per sé non è che un vacuo slogan può diventare un fattore politico dei più negativi.
Ma la dottrina sionista ha un'influenza ancora più distruttiva sulla mentalità prevalente in Israele. Poiché per i sionisti Israele è la testa di ponte dell'ebraismo mondiale, questo è visto come una riserva inesauribile di potenziale umano e di denaro, e il rapporto di Israele con gli ebrei (particolarmente quelli dell'Occidente) acquista di conseguenza un'importanza fondamentale, mentre quello con il mondo arabo viene automaticamente respinto sullo sfondo. La localizzazione di Israele nel Medio Oriente appare come un accidente geografico, un fattore da ignorare finch'è possibile, e da trattarsi con mezzi militari quando è necessario. Per un sionista la soluzione ideale sarebbe resecare Israele dal Medio Oriente e trasferirlo in un ambiente più congeniale, per esempio di fronte alla riviera francese, se non al largo