parlamentari) soltanto cinque (quattro comunisti e chi scrive) non sono sionisti. E i sionisti si muovono uniti su ogni questione importante, dividendosi soltanto su problemi di applicazione. Le differenze esistenti tra Menahem Begin, il leader del partito Herat (sionista di destra) e Meir Yaari, il leader del Mapam (sionista di sinistra) sono certamente minori di quelle che corrono tra un senatore democratico razzista del-l'Alabama e un senatore democratico liberale di New York. In effetti, tutti i partiti sionisti potrebbero trovare comodamente posto nel partito democratico statunitense, e rimarrebbe spazio su ambedue i lati.
Il quadro dei partiti muta di frequente: essi si scindono, si fondono, modificano le loro denominazioni, costituiscono blocchi e alleanze nel modo più sbalorditivo. Alla vigilia delle ultime elezioni tre partiti si spaccarono e quattro costituirono, a due a due, alleanze elettorali con nomi nuovi. Dopo di allora tre partiti si sono fusi in un'unica formazione, sotto un'etichetta nuova (Partito operaio israeliano, e tutti gli altri sembrano guardarsi intorno ricercando la possibilità di nuovi blocchi (nel frattempo ciascuno di loro è minacciato da una scissione interna).
Queste manovre oscurano il fatto centrale della vita pubblica israeliana: una stabilità politica quasi incredibile. A dispetto di tutte le nuove etichette, le scissioni e le alleanze, il quadro politico fonda-mentale della comunità ebraica palestinese non ha conosciuto alcun mutamento effettivo dopo gli anni trenta. Tutti i nuovi partiti provengono, per scissione o continuazione diretta, dalle antiche formazioni, e tutti i gruppi politici sionisti possono far risalire le proprie origini all'inizio del secolo.
Qualche anno fa Kadish Luz, il presidente della Kenesset, un uomo molto rispettato, fece un discorso che ebbe vastissima risonanza. Passando in rassegna