ritori è legato all'alternativa tra riconoscere la nazione arabo-palestinese (e quindi trattare con essa) e negare la sua esistenza.
Oggi il governo israeliano insiste sul concetto che la situazione in atto - cioè un precario cessate il fuoco - può essere modificata soltanto se i governi arabi iniziano trattative dirette e aperte con Israele. Inoltre Tel Aviv si rifiuta di dichiarare - e anche soltanto di suggerire - la sua posizione in materia di condizioni di pace, affermando che porrà le proprie condizioni soltanto nel quadro di trattative ufficiali e dirette' con i governi arabi.
Questo comodissimo e vantaggiosissimo atteggiamento solleva il governo israeliano dalla necessità di decidere le proprie condizioni di pace, compito che travalica di molto le possibilità dell'attuale Grande Coalizione, in cui si trovano forze che non potrebbero accettare nulla di diverso da una piena e secca annessione, accanto ad altre che, viceversa, non potrebbero tollerare l'annessione. Il primo ministro Eshkol, il quale vuole, come il presidente Johnson, essere la personificazione di un vasto consenso, amerebbe mantenere in vita la coalizione sino alle elezioni del 1969, rinviando così qualsiasi scelta.
Per gli Stati arabi trattative dirette come primo passo sono impossibili. Un tale rinnegamento di tutti gli slogan che hanno dominato il mondo arabo per mezzo secolo può forse costituire lo sbocco, ma non certamente l'inizio della strada che conduce alla pace. Prima di esso debbono venire molte cose: la soluzione del problema dei profughi palestinesi, e la neutralizzazione di numerosi altri fattori che avvelenano la Regione.
Inoltre, i governi arabi sospettano che l'invito alle trattative dirette nasconda una trappola. Un alto