Dopo la guerra del 1967, tre sono le alternative concrete che Israele ha oggi di fronte.
La prima consiste nella restituzione dei territori occupati agli Stati arabi confinanti. Pochissimi israeliani la considerano attuabile o desiderabile. Nel caso peggiore, essa significherebbe che presto o tardi eserciti arabi nemici riapparirebbero sulle vecchie posizioni, a dieci miglia dal litorale di Nethanya, a quindici miglia dal cuore di Tel Aviv, rendendo nuove guerre praticamente inevitabili. Nel caso migliore - se cioè gli Stati arabi accettassero una qualche forma di sistemazione pacifica - significherebbe per Israele la continuazione dell'assedio da parte degli arabi palestinesi spossessati e agognanti il recupero della propria identità nazionale. Rimarrebbero cioè le radici di nuovi guai. Il problema di Gerusalemme, ora unificata e annessa ad Israele, con la carica emotiva che gli si accompagna da ambedue le parti, rende una tale soluzione ancora più improbabile.
La seconda possibilità, esattamente opposta, è vigorosamente patrocinata in Israele da tutti gli elementi più estremisti, e consiste nell'annessione in blocco dei territori occupati (o della maggior parte di essi). Si scontrano qui due tratti connaturali al sionismo. Come movimento colonizzatore, il sionismo è congenitamente espansionista, almeno entro i confini storici della Palestina. Per un sionista di vecchio stile è perciò perfettamente naturale invocare la « liberazione » di tutta la Palestina, che aprirebbe nuove superfici alla colonizzazione ebraica. E tuttavia una tale richiesta, ovvia dopo una guerra vittoriosa, viene in urto con un altro tratto congenito del sionismo: l'idea di uno Stato ebraico omogeneo. Israele non è riuscito ad integrare nella sua struttura psicologica 300 000 arabi israeliani; come potrebbe assorbirne quasi un milione e mezzo? L'annessione dei territori e dei loro abitanti farebbe di Israele uno Stato bi-