- in ebraico ein brera - era la parola d'ordine della guerra, in cui si riassumevano un modo di pensare e una determinazione profondamente vissuti da ogni cittadino del nuovo Stato durante quella guerra decisiva.

I civili arabi furono così spinti indietro progressivamente, poche miglia alla volta, ritrovandosi a poco a poco sempre più lontani dalle proprie case, ma sempre con la convinzione che il ritorno sarebbe stata questione di giorni o di settimane. Alla firma dell'armistizio una frontiera internazionale calò improvvisamente tra loro e le loro case. Erano diventati dei profughi.

Rimasero in territorio israeliano soltanto quegli arabi che vivevano in zone conquistate dall'esercito' d'Israele in campagne-lampo che non avevano lasciato loro il tempo di fuggire (e quando gli israeliani non erano interessati a far bloccare le strade dalle colonne di profughi). Fu il caso di Nazareth e dell'intera Galilea. Si aggiunse la popolazione di un gruppo di villaggi ceduti dalla Giordania in sede di accordi armistiziali, dopo la fine dei combattimenti.

Personalmente, giudico futile tentare di individuare in un campo o nell'altro la responsabilità iniziale della tragedia dei profughi. L'esodo fu inevitabile, come fu inevitabile la guerra, prodotta dal funzionamento del circolo vizioso che era alla base dei rapporti arabo-israeliani. La responsabilità deve essere suddivisa tra le due parti. All'origine della vicenda ci sono viltà, irresponsabilità e indifferenza non meno che terrorismo, inumanità e spirito di violenza bruta.

In campo arabo non fu mai formulato, durante l'intero corso dei combattimenti (e invero sino a oggi) un obiettivo di guerra concreto. Nel 1948 la vittoria degli arabi avrebbe significato per gli israeliani una

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