zone, da cui doveva uscire la scelta della migliore canzone militare. Il pubblico ha dato la preferenza ad una ballata che racconta di un soldato dei servizi sanitari il quale, nel corso di una scaramuccia lungo il Giordano, si sacrifica per il compagno ferito.
La radio ha risuonato per tutto il giorno di fanfare e canti guerrieri. Se ci si sintonizza sull'uno o sull'altro dei paesi vicini si possono ascoltare programmi in lingua araba, e i canti che risuonano su tali lunghezze d'onda sono non meno patriottici e guerrieri dei nostri.
Sono passati due anni. La guerra dei sei giorni non è finita. È bensì vero ch'essa non è cominciata il 5 giugno 1967, ma fu scatenata ben novant'anni fa, e da allora l'impeto iniziale non s'è affievolito.
E tuttavia mi sembra che la vera battaglia sia altrove. Oggi la lotta decisiva non si combatte lungo le rive del canale di Suez, né lungo quelle del Giordano, ma all'interno di Israele, dove gli israeliani si battono tra loro, e all'interno dei paesi arabi, dove è in corso una contesa analoga. Tra gli estremisti dei due campi corre una straordinaria coordinazione. Ogni volta che noi in Israele tentiamo di dimostrare a qualcuno che la pace è possibile, questi ci ridicolizza agli occhi del pubblico facendosi forte dell'ultimo articolo o dell'ultimo discorso d'un estremista arabo. Ogni volta che nel mondo arabo si
affronta la stessa questione, l'ultima dichiarazione d'un ministro israeliano proclamante il diritto sacro degli ebrei a possedere la totalità di Eretz-Israel porta un colpo mortale alle posizioni pacifiste.
Mig e Phantoms, attentati terroristici e rappresaglie al napalm sono tutti fattori che rafforzano i vari sciovinismi mediorientali e li fanno prosperare. Sventuratamente nessuna collaborazione invece esiste tra quegli israeliani e quegli arabi che, in ciascun