Io credo che l'iniziativa sarebbe dovuta partire da Israele. Spettava al vincitore mostrarsi generoso, tendere la mano al vinto e guarirlo della sua umiliazione trattandolo con rispetto.
Sette giorni dopo lo scoppio della guerra indirizzai a Levi Eshkol una lettera in cui lo esortavo a concedere immediatamente ai palestinesi il diritto di disporre della propria esistenza nazionale offrendo loro - in cambio della pace - la libertà e l'indipendenza. Nessun tentativo del genere fu effettuato. Gli israeliani si riversarono in massa nei territori occupati per acquistare tutto ciò che ai loro occhi avesse un'aria esotica. Era nata una nuova razza: quella dei conquistatori-turisti, curiosi più che arroganti, e che invece di saccheggiare acquistavano. Ma i contatti sociali rimanevano praticamente inesistenti. Le opinioni degli arabi sul conflitto continuavano a restare un mistero per questa folla d'israeliani che passeggiava nelle città arabe, beveva il caffè, palpava le merci nelle botteghe. La vicinanza fisica non riduceva affatto l'estraneità sostanziale.
In seno al governo la tendenza generale era ben rappresentata da Levi Eshkol: Niente decisioni!
Niente fretta! Aspettiamo! Non concediamo nulla! Rinviamo a più tardi! Noi siamo avvantaggiati dal fatto di avere i piedi sulla terra! Lo status quo gioca a nostro favore!
Moshe Dayan faceva dichiarazioni stravaganti e contraddittorie senza pensare sul serio nulla di ciò che diceva, e riuscendo a confondere le idee a tutti, a cominciare da se stesso.
Abba Eban, perduto in una magniloquenza autosoddisfatta, si batteva alle Nazioni Unite con gli oratori sovietici e arabi, trascinato dall'ammirazione del suo pubblico di telespettatori ebrei americani.
In una parola, questo momento storico non trovò un leader che fosse alla sua altezza.